Le foto della presentazione de "Il segno del cavallo" presso la sede dell'I.N.D.A.

Siracusa, 25 Novembre 2012

I giovani attori dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico e Maurizio Donadoni hanno reso magica la serata del 25 Novembre al folto pubblico accorso nella sala Amorelli.
C’è stato il tutto esaurito e sono rimasti solo posti in piedi. In molti sono purtroppo rimasti fuori, cercheremo quindi di rimediare postando su You Tube i filmati della recita.
Cinque bravissimi attori hanno recitato nei ruoli di Tucidide, Alcibiade, Temistogene, Leda e Aser: Temistogene e Leda hanno coinvolto il pubblico in un romantico duetto degno di Romeo e Giulietta, mentre Tucidide in poche battute ha messo a nudo lo stile di vita scellerato di Alcibiade e Maurizio Donadoni s’è lanciato infine in un potente inno alla pace, recitando il monologo di Temistogene.
Un monologo che potete leggere in questo stesso Sito, dove si cita la presentazione del 27 Settembre presso la Galleria Roma. Di seguito alcune foto della presentazione (Foto di Diletta Romano).

 

La novità in libreria: "Il segno del cavallo"

Giuseppe Bordonali e la dottoressa Annalisa Romeo durante la presentazione presso la Galleria Roma del 27 Settembre 2012

Giuseppe Bordonali ha recitato il seguente monologo di Temistogente durante la presentazione de "Il segno del Cavallo" presso la Galleria Roma.

Parla Temistogene…

"Avete ascoltato le parole di Tucidide. Ciò che avete ascoltato, gliel’ho raccontato io. Io, che partii un giorno con altri trentamila sventurati compagni dal Pireo per una guerra in Sicilia.

Mi chiamo Temistogene, figlio di Agatone del demo di Oe, e ricordo bene quel giorno di inizio estate, quando scendemmo festanti all’alba sino alle navi, mentre tutta la città ci acclamava.

Alcibiade ci aveva convinto, Alcibiade dalle belle parole e dai modi eleganti ci aveva incantato e illuso. Stolti!

Invano il saggio Nicia aveva tentato di evitare la guerra, invano aveva chiesto di non sguarnire la città delle sue truppe migliori e delle sue navi più nuove. Invano Nicia aveva detto che partivamo senza sapere quanto grande fosse la Sicilia e quanto fossero forti l’esercito e la marina dei Siracusani. Invano il vecchio aveva parlato!

Alcibiade aveva ribattuto che, come tutti i vecchi, Nicia tendeva ormai a difendere il suo, non avendo più quella spinta a migliorarsi che hanno tutti i giovani. Nicia ora voleva fermare Atene, esattamente come fa l’atleta che smette di allenarsi.

Sapete cosa accade all’atleta che si ferma? Chiese Alcibiade al demo riunito alla Pnice.

S’addormenta! Gridò un suo scagnozzo prezzolato.

Bravo! - Continuò Alcibiade – S’addormenta, si rammollisce, perde efficienza e così gli avversari lo sopraffanno. Così anche Atene, prima che venga aggredita dai paesi confinanti, deve fare questa guerra preventiva contro Siracusa. Conquistata la Sicilia, conquisteremo poi Cartagine, per dedicarci infine ai Persiani. Solo allora potremo fermarci.

A queste parole la folla esultò, avida di ricchezze e conquiste. Esultò perché la guerra avrebbe rappresentato un lavoro ben retribuito per i rematori della flotta e un ricco bottino per gli opliti vincitori. Esultò la folla, trascinata anche da coloro che Alcibiade aveva prezzolato. Così agiva il ricco Alcibiade: pagando qualcuno che spingesse la folla dell’Agorà ad accogliere le sue proposte e pagando anche i sacerdoti

dell’oracolo di Amon per avere un responso favorevole alla guerra: Avrete nelle vostre mani tutti i Siracusani. Con questo responso tornarono dall’Egitto i messi di Alcibiade.

Quando poi catturammo nel porto di Siracusa la scialuppa con i sacerdoti che trasportavano ad Ortigia dall’Olympieion i papiri con la lista dei cittadini Siracusani, solo io compresi che il dio aveva risposto ad Alcibiade con la sua stessa moneta. Un inganno aveva richiamato un altro inganno: solo i nomi dei Siracusani avremmo avuto nelle nostre mani. Perché noi, i Siracusani in carne e ossa, non li avremmo mai più catturati. Per di più, poco prima che la flotta partisse, mani sacrileghe avevano nottetempo mutilato dei loro falli le Erme ai quadrivi di Atene. Sacrilegio! Non saremmo dovuti partire, dopo quella grave offesa agli dèi. Eppure partimmo.

Dopo, avrei voluto dimenticare tutto ciò che ho visto e sopportato in Sicilia. Eppure, Tucidide riuscì a farmi parlare. In verità non gli ho raccontato molto di Nicia, Lamaco e Demostene, illustri strateghi che poeti e filosofi per secoli ancora avrebbero ricordato. Gli ho parlato invece della fatica e delle sofferenze dei miei tanti compagni, partiti con me e mai più tornati a casa.

Solo io infatti sono tornato a casa: ma senza compagni, senza navi, senza ricchezze e da solo, come Odisseo. Come Odisseo ho però conosciuto popoli barbari e nuove terre. Ho persino visto il cranio di Polifemo, ho scalato l’Etna fumante e attraversato le praterie del Simeto, dove i Siculi a cavallo cacciano con le frecce e le lance i bufali selvaggi. Ho visto il santuario dei Palici e i riti misterici di quei sacerdoti barbari. Sono poi stato due volte a Neas, la capitale di re Ducezio: uno che prenderesti per Greco, se non sapessi che è il re dei Siculi.

Amavo però guardare Siracusa dall’alto del Plemmyrion. La città era lì sul mare, a pochi stadi da noi, e sembrava invitarci come una bellissima donna sfrontata. Sembrava quasi a portata di mano… eppure non siamo riusciti a prenderla, anche se due volte io vi sono entrato in missione segreta, perché Nicia trattava segretamente con Atenagora la resa.

Mai dimenticherò poi come ci uccidemmo tra noi Ateniesi nella battaglia notturna all’Epipoli, né come morirono gli uomini di

Demostene circondati dai cavalieri Siracusani: invano i meschini alzarono gli scudi per coprirsi dalle frecce e dai dardi dei cavalieri, che in cerchio giravano loro intorno intonando già al cielo i loro peana di vittoria. Quando Demostene s’arrese, a migliaia le frecce e i dardi erano conficcati sul terreno e sui cadaveri dei miei sventurati compagni.

Ricordo soprattutto il sole impietoso sulle nostre teste, la gola riarsa e la lingua attaccata al palato, la vista annebbiata e i ronzii alle orecchie, le gambe che cedevano sui piedi piagati e i capogiri per la sete che ci stava uccidendo, quando giungemmo infine all’Assinaros.

Acqua, acqua, acqua! Solo l’acqua volevamo prima di morire. Non importava se quell’acqua fosse già rossa del sangue dei compagni che l’avevano raggiunta prima di noi e che, pur di bere, s’erano lasciati scannare come i buoi indifesi di un’ecatombe.

Anch’io ho bevuto il sangue dei miei compagni, mescolato all’acqua e al fango del fiume. Ma dove sono finiti i miei compagni? Molti insepolti, divenuti pasto per cani e rapaci, rimarranno per sempre senza pace. Altri più fortunati, come Teucro, Sosistrato e Conone, con le mie mani li ho seppelliti, e le mie mani puzzano ancora dei loro cadaveri disfatti. Ancora oggi non riesco ad avvicinare le mie dita al naso.

La puzza poi, ah, la puzza delle orride Latomie! Chi di voi volesse conoscere il regno di Ade, dovrebbe passare dalle Latomie di Siracusa.

Ricordo infine come ottenni la mia libertà: recitando alcuni versi de Le Troiane di Euripide nel teatro del Temenite, il più bello e armonioso da me visto tra tutti quelli costruiti nel mondo dai Greci.

Ieri mi è venuto a trovare Senofonte. Vuole portarmi, con altri diecimila, a combattere per Ciro una piccola guerra in Asia.

Domani gli darò la mia risposta: caro Senofonte, mai più partirò per una guerra, tragico inganno per i popoli!".

 

Foto tratta dal video della trasmissione di Telestar del 4 Ottobre 2012

La sezione si arricchisce di due video dedicati all'ultimo libro di Giuseppe Bordonali.

Nel primo video abbiamo un filmato tratto dal CD di History Channel che sintetizza la guerra tra Atene e Siracusa. Il filmato è stato utilizzato per la presentazione del 27 Settembre 2012. (Guarda il video cliccando sul link numero 1).

Nel secondo video viene proposta una sintesi della partecipazione di Giuseppe Bordonali al programma "Cavalli e dintorni" sull'emittente Telestar presso l'ippodromo del Mediterraneo. Lo scrittore recitava il ruolo, ovviamente, di "dintorni", ma l'apparazione è stata un successo. La giornalista Patrizia Tidona ha definito la puntata come "la più bella tra le dieci già andate in onda. (Guarda il video cliccando su link numero 2).

- Link Numero 1

- Link Numero 2

Vento di libertà

Le altre pubblicazioni

Filmati di presentazione (scarica il Quick Time se non funzionano)

Filmato 1 (10,5 Mb)

Filmato 2 (3,93 Mb)

Riportiamo i testi di alcune conferenze di G. Bordonali:

Siracusa 28 Dicembre 2004

Da sinistra: Angelo Annino, Giuseppe Bordonali e Maria Rosa Malesani.

Il 28 Dicembre è stato presentato a Siracusa l’ultimo libro di Giuseppe Bordonali.

Era troppo piccola la sala di Villa Reimann per accogliere tutti i convenuti alla presentazione, organizzata dalla Società Siracusana di Storia Patria. Molti hanno infatti ascoltato in piedi le interessanti argomentazioni della professoressa Malesani sui personaggi dei racconti e gli indovinati paragoni fatti da Giuseppe Bordonali fra il transatlantico Conte Rosso e il Titanic, accomunati da un identico destino.

L’autore, leggendo due testimonianze di sopravvissuti all’affondamento, ha invitato il pubblico a richiamare in mente le immagini efficacissime del recente film di Cameron, quello con Leonardo Di Caprio e la Wislet:
Bartolomeo Predonzan, 3° ufficiale della nave: “…Altri militari che non sapevano nuotare, non trovando la forza di muoversi, si accovacciarono, vinti, ad attendere la morte, chi invocando la madre, chi la moglie e i figli, chi fissando muto il mare, già brulicante di teste… Quando il Conte aveva ormai la poppa puntata verso il cielo, rotolai fino al ponte di comando. In quel preciso istante la nave s’inabissò. Fui afferrato dal gorgo. Sprofondai e pensai che fosse giunta la mia ora. Ma un provvidenziale fiotto di nafta mi catapultò in alto. Tornai boccheggiando in superficie. Perdetti i sensi. Tre ore dopo mi risvegliai allineato tra i cadaveri sul caccia Procione: mi avevano creduto morto.”

Stanislao Rustia, addetto ai viveri di bordo: “…La nave, affondando di prora, tendeva a disporsi in verticale. La poppa finì così a varie decine di metri sull’acqua. Molti si gettarono da tale altezza per finire sfracellati sulle fiancate o, toccando il mare, morendo impiccati dai salvagente che, costruiti per tenere la testa fuori dall’acqua, agirono da capestro dopo quel volo. Fui salvato dal caccia Procione ma altri, in acqua presso la poppa dello stesso caccia, furono invece uccisi da una motobarca che, sbattuta improvvisamente dal mare, li schiacciò contro la fiancata della nave.”

Viene proprio da credere che Cameron si sia ispirato a queste testimonianze, nell’elaborare al computer il suo magnifico film!
L’autore ha anche spiegato perché, secondo lui, la vicenda del Conte Rosso sia finita nel dimenticatoio ed ha puntualizzato le differenze tra la cronaca e la letteratura. Infine è stato ringraziato da un lettore novantenne, ex ufficiale in Libia: commosso, sino al pianto, per aver rivissuto nei racconti la sua giovinezza lontana.
“Il mio editore” - ha anche detto il dottor Bordonali - mi ha comunicato che Uomini del Conte Rosso sta vendendo bene in tutta Italia e che presto alla prima edizione ne seguirà una seconda.” La serata si è conclusa tra gli applausi.

Augusta

Augusta: Giuseppe Bordonali, il presidente del Lions Club Host Domenico Garsia, il prof. Luigi Amato

Presentazione "Uomini del Conte Rosso" presso la sala delle conferenze dell'Hotel "La Cavaliera" alla presenza dei soci del Club Lions Host di Augusta.

Ecco qui il testo del discorso preparato dall’autore (che ha però poi preferito parlare “a braccio” ai numerosi presenti) per i soci del Club Lions Host di Augusta:

“Uomini del Conte Rosso”

Avevo dodici anni, quando appresi la storia del Conte Rosso.
Quel giorno mio padre mi raccontò dei suoi inizi al volante: era il 1941, c’era la guerra, e la benzina era razionata.
La Balilla del nonno forava continuamente gli pneumatici già pieni di toppe, e bisognava spesso fermarsi a pulire il carburatore pieno d’acqua.
Si circolava infatti con la benzina acquistata al mercato nero: era la benzina del Conte Rosso.
Io non sapevo cosa fosse “la benzina del Conte Rosso,” né perché fosse annacquata.
Così mio padre mi raccontò della tragedia, dei tantissimi morti e dei fusti di benzina che galleggiavano nel mare di Avola e che i pescatori, usciti in mare a recuperare superstiti e cadaveri, raccolsero in gran quantità.
Dimenticai presto quella triste storia di guerra: di una guerra sbagliata e, soprattutto, una guerra perduta che nessuno in Italia ha mai amato commemorare negli ultimi sessanta anni…
basti ricordare come non si sia mai parlato, sino a pochi anni fa, dell’eccidio di Cefalonia o delle Foibe del Carso…
Anch’io misi nel dimenticatoio l’affondamento del Conte Rosso, ma allora avevo dodici anni…
Mi ricordai però delle parole di mio padre pochi anni fa, quando lessi sul quotidiano La Sicilia un articolo dell’ingegner Tullio Marcon di Augusta.
Era un commovente articolo scritto in memoria di quella tragedia che aveva causato la morte di 1.300 giovani e la fine di una nave bellissima, che non aveva nulla da invidiare al più famoso Titanic.

Riassumo, per chi non sappia che gran bella nave sia stato il Conte Rosso: lungo 180 metri, dalla chiglia ai fumaioli era alto come un palazzo di dodici piani. In prima e seconda classe non vi era un solo centimetro di ferro a vista, perché tutte le pareti erano ricoperte da splendidi legni intagliati e i saloni rivestiti da soffitti a cassettoni. Dipinti, arazzi, un potabilizzatore di acqua marina (raro a quei tempi) e lampadari di cristallo rendevano i viaggi piacevolissimi in queste classi.
Avrete tutti visto il film di Cameron sul Titanic: ebbene, immaginate pure il nostro Conte Rosso come quella nave descritta da Cameron.
Vi dirò di più: poiché il Conte Rosso fu progettato due anni dopo la tragedia del più celebre transatlantico britannico, i progettisti lo dotarono di un doppio scafo e di paratie stagne richiudibili elettricamente dalla Plancia.
Il Conte Rosso ha avuto anche un’altra peculiarità: poiché durante la prima guerra mondiale il suo scafo era già pronto in un cantiere di Glasgow, gli inglesi lo vararono, costruendovi sopra un lungo ponte e creando così la prima portaerei della storia, arruolata nella flotta di Sua Maestà britannica con il nome di Argus. Finita la guerra, la nave tornò poi in cantiere per essere riadattata al progetto originario.

La vicenda del Conte Rosso è stata ricordata anche in due numeri della rivista “I Siracusani” dell’editore Morrone e, nel maggio 2002, nuovamente su “La Sicilia”, da Giovanni Failla che ha riportato i ricordi dell’ex ufficiale della Marina Militare Salvatore Paone.
Quegli articoli hanno finalmente ridato voce, dopo sessant’anni, ai 1300 morti del Conte Rosso e hanno creato, nella mia mente, tante storie che ora chiedono solo di essere lette da tutti.
Come infatti le sculture di Michelangelo volevano essere liberate dal marmo, così ora i miei uomini sono stati liberati dal mare che li aveva inghiottiti un lontano giorno di maggio, sul far della sera.
Per mesi sono stato spinto a scrivere una storia dopo l’altra, e sicuramente avrei continuato, perché ne avevo altre tre in corso d’opera quando l’editore Sovera di Roma mi ha proposto di stampare i diciassette racconti già pronti. Ho accettato perché in quei giorni, consultando internet, mi sono accorto che anche il Conte Rosso era al suo diciassettesimo viaggio per l’Africa: forse quindi diciassette racconti potevano bastare…

Quelle scritte da me sono tutte storie inventate, ovviamente. Tutte tranne l’ultima, quella del capitano Cosulich, che ho aggiunto perché le gesta degli eroi devono essere d’esempio alle nuove generazioni: perché i nostri giovani devono guardare all’onestà e all’obbedienza al dovere e al sacrificio di questi uomini, non certamente alla moda vana dell’apparire che porta, come massima aspirazione, a far la velina o il calciatore lasciando, però, la testa sicuramente vuota.

Quella del Conte Rosso non solo è stata una tragedia più grave di quella però più famosa del Titanic, ma è stata anche una tragedia colpevolmente dimenticata dai politici e dai mass media.
Soprattutto da questi ultimi che sono, in fin dei conti, i veri creatori del gusto, degli umori e della coscienza nazionale.
Non lo ritengo giusto perché noi italiani, che abbiamo vissuto gli anni della pace, abbiamo l’obbligo morale di ricordare quei 1.300 giovani che hanno avuto la giovinezza stroncata e che morirono anche per noi.
Non ritengo giusto altresì che siano dimenticati la solidarietà e il gran cuore mostrato da tutta la popolazione di Augusta verso i 1.500 naufraghi riportati a terra nudi, intirizziti dal freddo, neri di nafta e con ancora negli occhi la morte atroce di amici e compagni.
“Augusta ci ha adottato” ha detto un naufrago: il giorno successivo al naufragio infatti, chi non era stato ricoverato in ospedale per le ferite andò in giro per le vie di Augusta rivestito con la divisa da fatica della Marina ed era quindi facilmente riconoscibile.
Fu una gara di solidarietà: ovunque una popolazione che aveva appena lo stretto necessario per vivere offrì vitto e alloggio gratuito ai poveri ragazzi del Conte Rosso. Lo stesso accadde anche nelle trattorie della città, dove i ragazzi furono invitati a bere e a mangiare.

La vicenda del Conte Rosso mi ha consentito di dare al lettore uno “spaccato” della vita del Ventennio.
Poiché infatti in un naufragio la vita si ferma al momento dell’inabissamento, per scrivere queste storie mi sono dovuto calare nell’Italia d’anteguerra, immaginando il modo di pensare dei nostri nonni, le loro abitudini quotidiane, la loro vita sotto Mussolini e le loro angosce per la guerra.

E’ stato bello e stimolante per me l’aver immaginato come possano aver vissuto persone appartenenti a tutte le classi sociali e anche al clero. Ovviamente ho parlato di situazioni non comuni, talvolta al limite del grottesco, ma chi potrebbe affermare che un monsignore non possa mettere incinta una donna sposata, o che un medico non possa anche essere pedofilo, o che Cesare Pavese non si sarebbe suicidato se fosse rimasto a Brancaleone?

Vi devo dire che il risultato della mia opera è stato senza dubbio buono, se un mio lettore novantenne, ex ufficiale di artiglieria in Libia durante la guerra, mi ha inviato i suoi ringraziamenti per avergli dato, con la lettura di questo libro, l’emozione di rivivere la sua giovinezza lontana.
“In quei tempi era proprio così.” ha detto al figlio, “Ma come ha fatto il dottore a scrivere queste cose così precise? Da come scrive, sembra proprio che vi sia stato!”

Cari amici, la consapevolezza di aver fatto emozionare questo novantenne mi ricompensa ampiamente della fatica di aver scritto e mi dà la forza per continuare a farlo.
Vi ringrazio di cuore per avermi invitato oggi e, soprattutto, per aver avuto la pazienza di ascoltarmi. Grazie.

Giuseppe Bordonali

 

Presentazione di "Ahmet Pascià" a Noto il 23 - 5 - 2003

1) - (Al Rotary Club di Siracusa, il 17-11-2003)

Guai ai popoli che ignorano il loro passato: chi non ha coscienza della propria storia, della storia e delle tradizioni popolari del proprio territorio, vive infatti come una foglia caduta dall’albero che ogni vento facilmente trascinerà ora su, ora giù, ora a destra, ora a sinistra, e sarà quindi facile preda del più sfrenato consumismo o di estremismi, fanatismi e ideologie estranee alla nostra cultura.
Sono rimasto allibito da come in Italia si siano lasciati crescere con estrema superficialità, negli ultimi vent’anni, i nostri giovani davanti ai teleschermi di Italia Uno o Canale Cinque: le televisioni commerciali infatti, sostituendosi con i loro cartoni giapponesi e con i loro film americani alle mamme e ai nonni italiani, hanno importato la cultura dell’apparenza alla Beverly Hills, dell’immoralità alla Beautifull, del mangiar male tipico dei Fast Food, e della droga, dei super alcolici, della violenza per bande e del facile arricchimento, tipico del sogno americano, che sono estranei alla nostra cultura, ponendo soprattutto l’immagine esteriore del corpo al di sopra di ciò che si possiede nell’animo e nella mente, e quindi il possesso del denaro come il Bene assoluto al di sopra dei Valori Universali che la filosofia, la religione, e la cultura umanistica europea aveva da secoli connaturato nelle nostre anime. Qualcuno di voi si è chiesto a quale società ci porterà un futuro di sole Veline e Letterine e di palestrati agli ormoni?
E’ forse per questo motivo che molti giovani a Siracusa non hanno alcuna cognizione della grande storia vissuta nei secoli passati dalla nostra città, ma sanno tutto di Totti e di Vieri e delle loro Veline o Letterine.
Chi potrà recuperare alle nostre tradizioni i nostri giovani? Potrà farlo solo chi ha accumulato negli anni la saggezza, la cultura e la storia degli antenati.
Io sento il dovere di divulgare la storia della nostra terra a piene mani, come fa il seminatore con il grano: se infatti anche un solo giovane dovesse accogliere il messaggio culturale dei miei libri come fa il terreno fertile in cui germoglia il grano, io non avrò vissuto, e scritto, invano.
Anche i più anziani, comunque, spesso non hanno che una vaga idea di ciò che è stata Siracusa nel passato, e questa conoscenza si ferma sempre alla antica storia della Siracusa greca di cui tutti vediamo le vestigia sparse in ogni angolo del nostro territorio.
Ma queste vestigia sono pietre mute: pietre che parlano però solo alla sensibilità di chi ha coscienza della propria storia.
Con Il dono di Ahmet Pascià, ho voluto parlare di un’epoca poco conosciuta, perché tutti a Siracusa sanno della grande epopea greca della nostra città, ma nessuno conosce le vicende vissute dalla nostra terra e dai nostri antenati nei secoli successivi.
Vi porto un esempio. Io stesso, da ragazzo, mi chiedevo perché i siracusani chiamassero il ponte umbertino al plurale: I Ponti. Qualcuno di voi sa darmi la risposta?
I nostri nonni ci avrebbero dato subito la risposta esatta. I nostri nonni infatti hanno vissuto in una città completamente diversa da quella che noi siamo abituati a vedere: una città sul mare, ma che non vedeva il mare, una città stretta da mura e isolata dalla terraferma da ben quattro canali, quattro ponti e quattro porte. E proprio l’abitudine di parlare dei ponti per entrare ad Ortigia è arrivata sino a noi nel chiamare I Ponti il vecchio ponte umbertino.
Quanti di voi conoscono la bellezza della porta monumentale di Ligny? E quanti di voi sanno che all’altezza dell’attuale Pozzo ingegnere c’era il primo canale con la prima muraglia, l’opera a corona, e il primo ponte che portava alla Porta a Terra che veniva chiusa al tramonto lasciando fuori i ritardatari? Da lì un altro ponte su un altro canale conduceva alla Porta di Villafranca, attraverso cui si passava al Montedoro, la grande piazza d’armi. Poi un altro ponte su un altro canale portava al Barbacane, e un altro ponte infine alla Porta di Ligny, e alla Porta Reale, ingresso di Ortigia. Ho studiato queste fortificazioni e il tessuto urbano di Ortigia grazie ai lavori di Lucia Trigilia e della Dufour, e sono giunto alla mia personalissima idea che Siracusa, da sempre il centro più importante della Sicilia orientale, una volta divenuta piazzaforte militare, sia stata soppiantata proprio in quei tre secoli di prigionia da Catania, città militarmente meno importante, e quindi lasciata più aperta ai commerci.
Perché però ho voluto scrivere un romanzo?
Perché siamo pieni di trattati, e i trattati scocciano i più, interessando solo gli storici e gli appassionati.
Con il mio romanzo, invece, ho consentito già a tanti siracusani di passeggiare per le vie della antica Ortigia, partecipando, come già qualcuno mi ha detto, ad uno stupendo film a colori.

2) – ( Al Club degli Amici di Siracusa, 14-03-2004)

foto al club degli amici: il presidente Giuseppe Pignata, Giuseppe Bordonali e il sig. Piazza

Oggi festeggiamo il primo anniversario della pubblicazione de “Il dono di Ahmet Pascià”.
Ricordo come fosse stato ieri quando sono andato a ritirare le prime copie con il prof. Morrone, il mio editore, alla tipografia Invernale di Floridia: iniziò a piovere, e il prof. Morrone sorrise:
“Buon segno, dottore: sposa bagnata, sposa fortunata…”
E così è stato, in effetti, se quest’anno “il dono di Ahmet Pascià” è stato il romanzo scritto da un siracusano più venduto a Siracusa, ciò è avvenuto perché il romanzo è scritto in prosa scorrevole ed elegante e perché la storia che si svolge nella nostra Siracusa secentesca è avvincente.
Al “Dono di Ahmet Pascià” è poi seguita, lo scorso Dicembre, la pubblicazione della seconda parte della vicenda intitolata:
“Le ali di Icaro” per i tipi della Verba Volant edizioni.
Il progetto iniziale era di pubblicare “Le ali di Icaro” dopo almeno un anno dalla pubblicazione di “Ahmet Pascià”: ma tali sono state le richieste dei miei lettori di poter leggere la continuazione della storia, che ho deciso di anticipare i tempi.
Ora i due volumi stanno per essere distribuiti in tutta la Sicilia e già mi è stato richiesto di partecipare a presentazioni in tutta l’isola, iniziando da Messina, per passare poi a anche a Reggio e a Vibo Valenzia.
Il professor Morrone ha già contatti avviati per realizzare una Fiction da Ahmet Pascià.
Se questa si farà, ovviamente seguirà anche quella tratta da Le ali di Icaro.
Aspetto con ansia di poter vedere realizzata questa bella storia ambientata nella Siracusa del Seicento: una città che la maggior parte dei siracusani non conosce perché in genere ci si limita sempre a parlare e a mostrare le vestigia del grande passato greco della nostra città, mentre anche la Siracusa secentesca era stupenda, dietro le sue Porte monumentali, racchiusa tra i poderosi bastioni, i canali e i ponti costruiti dagli architetti di Carlo V, che ne avevano fatto l’estrema piazzaforte in difesa dell’impero spagnolo dalle minacce ottomane.

E’ pronto il terzo romanzo ambientato durante la visita del Papa nel 1994.
Sto completando un altro bellissimo romanzo storico ambientato a Siracusa nel 1798, durante la sosta di Orazio Nelson nella nostra città.

3) - (Alla Fidapa di Floridia, 28-03-2004)

La nostra vita è la continuazione naturale delle vicende dei secoli passati. Il nostro pensiero, le nostre abitudini, i nostri gusti, e quindi la nostra cultura, sono la diretta conseguenza di quegli avvenimenti.
Come l’oggi è la diretta conseguenza delle vicende del passato, così il romanzo di cui parliamo oggi, Le ali di Icaro, è la naturale continuazione de Il dono di Ahmet Pascià, il romanzo della nostra terra, che si chiude con la descrizione del terremoto del 1693 che distrusse la Sicilia orientale.
Le vicende narrate in Ahmet Pascià, sono infatti alla base della grande caccia al tesoro scatenata dal miliardario americano Arthur Tullner, che vuole impossessarsi ad ogni costo del cofanetto di Icaro con i papiri di Archimede, dono mancato (perché rimasto in Sicilia) del gran visir ottomano Ahmet Pascià al Re Sole.
Chi ha già letto Il dono di Ahmet Pascià potrà seguire in questo romanzo le ricerche del cofanetto di Icaro contenente il Trattato eliocentrico di Archimede, effettuate a Noto dal professor Peter Van den Berg, e potrà conoscere la nostalgia della Sicilia che prende poi lo stesso ricercatore tornato in California: ( pag. 46: “Uscì sulla veranda da dove si vedeva l’oceano… …le magnifiche parole di quella lingua perduta.)
Ne Le ali di Icaro, il lettore scoprirà anche come sia morto don Nicola Perez, l’ambizioso gesuita artefice e protagonista delle vicende narrate nel primo volume, e potrà leggere le ultime lettere lasciate dallo stesso in punto di morte:( pag. 130: “Diu onnipotenti… ….ca tantu iu vulìa avìri”)
Ho voluto risvegliare anche la coscienza verso la tutela dei nostri beni archeologici e paesaggistici: descrivendo l’incendio che nell’estate del 1998 ha devastato l’antica Noto e le contrade vicine. (pag. 137: “Le fiamme erano state un flagello biblico…. La reale entità del terremoto che l’aveva distrutta.”)
Mi addolora molto pensare che quell’incendio sia stato appiccato dolosamente da un manovale della forestale. Gli sfregi all’ambiente sono ancora evidentissimi e alcuni insanabili: quell’uomo ha arrecato un grave danno alla comunità e quindi anche ai suoi figli, chissà se se ne è reso conto.
La lettura dei due romanzi ci dà anche modo di osservare la differente condizione femminile nei due secoli: nel Seicento Elena, la nipote del principe, avrebbe dovuto farsi suora non per vocazione, ma perché era senza una dote adeguata al suo rango; l’ebrea Giuditta viveva subordinata al padre rabbino e alle sue ferree leggi; Sofia, abbandonata dal marito Vasco, era riuscita a dare un’istruzione al figlio Mario solo iscrivendolo al Seminario vescovile; Lucia infine, obbedendo allo zio, dovette rinunziare a frequentare l’innamorato Matteo.
Vi faccio notare che tutte queste citate sono donne libere, capaci di ribellarsi ai soprusi e di far valere le proprie qualità: ma la condizione subordinata della donna nel Seicento renderà comunque loro la vita molto difficile.
Invece ne Le ali di Icaro, donna Irene di Belmonte, imprenditrice, è il principale sponsor del congresso sul terremoto; la giovane principessa Eleonora, architetto, è incaricata dal vescovo di Noto del restauro del convento di S. Maria della Provvidenza e Julia, la fidanzata croata di Corrado, è archeologa. Tre ex mogli americane vivono felici, dopo il divorzio, con i ricchi alimenti del miliardario Artur Tullner che sta già cadendo, da sciocco, tra le braccia della segretaria Anne Dwight.
Sono tutte donne artefici della propria vita e protagoniste nel mondo: è evidentemente cambiata di molto la condizione femminile in questi tre secoli, e per fortuna!
Voglio infine aggiungere che questo romanzo è dedicato alla memoria di Emanuele Scieri, il giovane siracusano morto il 13 agosto 1999 nella caserma Gamerra, a Pisa, per un episodio di nonnismo. Spero che questo libro serva per non dimenticarlo e per ottenere presto la verità.
Io non conoscevo il povero Emanuele.
Voglio quindi rivelarvi come il destino mi ha portato a inserire il suo nome nel romanzo: il 18 agosto del 1999 stavo scrivendo il capitolo del terremoto descritto in Ahmet Pascià, e avevo tra le mani la rivista dell’ISVNA con i nomi dei sopravvissuti al terremoto del 1693.
In un momento di pausa dalla scrittura avevo acceso la televisione per ascoltare il telegiornale, mentre leggevo sulla rivista del referendum concesso alla popolazione netina dal duca di Camastra: si sarebbe deciso se ricostruire la città sull’Alveria, o se ricostruirla sul nuovo sito del Meti. Avevano diritto al voto tutti i capofamiglia. Cito alcuni nomi: Angelino, Attardo, Baglieri, Cannata, Failla, Guzzardi, Impellizzeri, Infantino, Landolina, Macca, Pirri, Raudino, Scieri…. Già, mentre leggevo “Scieri” la voce di un cronista riferiva del “parà” siracusano morto a Pisa… segno del Destino? Forse qualcuno mi voleva indicare qualcosa? Ma io sono una persona piuttosto razionale e non credo a queste cose! Però… però il nome di Emanuele da quel giorno mi è entrato in testa, e non è più andato via.
Volete sapere che risultato diede il referendum? Naturalmente una schiacciante vittoria per la ricostruzione sull’Alveria.
Ma l’emissario del duca di Camastra, non essendo d’accordo, minacciò di scomunica chiunque fosse rimasto sul sito dell’antica Noto, e la nuova città fu costruita sul Meti. Questa era la democrazia a fine Seicento: niente a che vedere con la nostra, naturalmente, ma chissà cosa ne diranno i posteri della nostra, tra qualche secolo?

4) – ( per i ragazzi del Liceo Scientifico Luigi Einaudi di Siracusa,
in occasione della premiazione del concorso Carmelo Vinci,
Villa Reiman 5-5-2004)

IL PIACERE DI SCRIVERE PER TRASMETTERE EMOZIONI

L’uomo ha bisogno di comunicare costantemente con i suoi simili perché è, come scriveva Aristotele, un animale sociale.
Sapete bene che nelle relazioni interpersonali sono importantissimi i gesti, dal sorriso alla stretta di mano e che è importantissimo l’uso della parola.
Ma il sorriso, il pianto, la disperazione, o la parola con cui esprimiamo i nostri sentimenti, possono ottenere solo un risultato immediato, perché le parole volano via e vengono presto dimenticate.
Come possiamo allora trasmettere agli altri in modo più duraturo ciò che ci affligge o ci allieta l’animo?
Dal Paleolitico ci sono giunti tanti bei graffiti raffiguranti scene di caccia o di riti sacri. Questi graffiti sono le prime espressioni dell’arte umana e sono anche le più antiche rappresentazioni di emozioni vissute dall’uomo.
E’ però con la scrittura che inizia la Storia. Con la scrittura siamo infatti in grado di conoscere, a distanza di millenni, cosa sia accaduto ai popoli antichi: come vivevano, quali Dei adoravano, cosa pensavano.
La scrittura ci ha tramandato le loro leggi, i loro amori e le loro angosce.
I Poemi omerici furono tramandati oralmente per secoli e si sarebbero persi, se qualcuno non li avesse trascritti, donandoci così il piacere di poterli leggere.
Quindi è bello leggere per ricevere emozioni.
Mi emoziono ancora rileggendo l’addio di Ettore ad Andromaca e al piccolo Astianatte alle Porte Scee: “Giorno verrà, presago il cor mel dice, che Ilio cadrà…” ma il piccolo bambino scoppia subito a piangere. Non per le parole che ancora non comprende, ma perché impaurito dal cimiero del padre. Ettore allora si toglie l’elmo e prende il figlio affettuosamente in braccio: ditemi se non è questo il più antico appello alla pace.
Mi affascinano poi le peripezie di Odisseo e le poesie di Saffo, adoro la descrizione del mare azzurro di Siracusa lasciataci da Mosco: un mare che invita gli uomini a solcarlo quando è calmo e che li invita invece a coltivare la terra quando le sue onde, biancheggiando, si infrangono sulle alte scogliere del Plemmirio.
La scrittura ci ha tramandato i Vangeli e le figure dantesche che abbiamo studiato al liceo e che rimarranno nostre per tutta la vita ( Paolo e Francesca: “Come colombe dal disio portate…” Il conte Ugolino: “La bocca sollevò dal fiero pasto…” Pier delle Vigne: “Ambe le chiavi tenea del cor di Federigo…” Ulisse: “Fatti non foste a viver come bruti…”).
La penna di Shakespeare ci ha lasciato Lady Macbeth convinta di aver le mani sempre lorde del sangue del re da lei assassinato e Giulietta, conscia dell’impossibile amore, che dice al suo innamorato: “O Romeo, perché sei tu, Romeo?”
Insuperabile è Manzoni, con l’addio ai monti di Lucia e con la madre che porta al monatto la piccola Cecilia morta di peste, ne I promessi sposi. Verga scolpisce sulla carta la Sicilia dei Malavoglia e delle novelle con la stessa potenza con cui Michelangelo aveva scolpito i suoi personaggi sul marmo di Carrara.
Pascoli poi scrive in ricordo del padre ucciso:
“O cavallina, cavallina storna,
che porti colui che non ritorna.”

Questa letteratura fa parte della nostra cultura:
non avremmo avuto il piacere di conoscerla, se qualcuno non l’avesse trascritta su un antico papiro o su un foglio di carta.
Quindi è bello leggere ed è opera altamente meritoria quella svolta dall’Associazione per la lettura, organizzata a Siracusa dalla professoressa Francesca Nardone, che si occupa di promuovere la lettura nelle scuole e il “libro” come bene culturale all’interno dell’Università.

Dal piacere della lettura è poi naturale passare al piacere della scrittura: soprattutto quando si ha dentro l’animo qualcosa che pretende di uscir fuori perché vuole essere letto dagli altri.
Vi porto la mia esperienza.
Amo Siracusa e so cogliere dalle sue pietre, greche o barocche che siano, la grande storia di cui esse sono state testimoni: per questo motivo ho scritto un romanzo storico ambientato a Siracusa.
Non nella Siracusa greca, che tutti sappiamo essere stata grandissima, ma nella Siracusa del Seicento, che pochissimi conoscono.
Era la Siracusa delle fortificazioni di Carlo V, quella dei quattro canali e dei quattro ponti, l’estremo baluardo dell’impero spagnolo che si opponeva all’espansione ottomana verso l’Europa occidentale.
Una Siracusa che non c’è più, perché distrutta in epoca Umbertina.
Ne “Il dono di Ahmet Pascià” prendo spunto da un importante fatto storico: nel 1672 il Re Sole aveva iniziato la conquista della Sicilia e nell’aprile del 1676, conquistata Augusta, puntava su Siracusa.
Venne in soccorso della Spagna una flotta olandese comandata dall’ammiraglio Michiel Adriaanson De Ruyter: un vincente, uno che gli inglesi chiamavano Il Terrore dei mari e che aveva anni prima risalito il Tamigi, bombardando gli arsenali di Londra.
De Ruyter fece base a Siracusa e affrontò i francesi, ma venne ferito a una gamba e ricoverato all’ospedale di Siracusa dove, purtroppo, morì dopo sette giorni.
Questo è un episodio della Grande Storia europea: De Ruyter, che per gli olandesi è un eroe come per noi Garibaldi, morì a Siracusa.
“Il dono di Ahmet Pascià” inizia quel 22 aprile del 1676, quando immagino che gli olandesi portino a Siracusa un cofanetto ellenistico d’avorio, dono del gran Visir di Istanbul al Re Sole.
Perché vi parlo di questa mia esperienza? Perché quel romanzo l’ho scritto di getto in appena trenta giorni: nel mese di Agosto del 1999.
Di buon mattino veniva Adriaan, il protagonista, a gettarmi giù dal letto: poi pazientava che mi facessi il caffè e si piazzava subito alle mie spalle a dettarmi le vicende.
Dopo quell’esperienza comprendo perfettamente come Giovanna D’Arco avesse potuto dire: “Sento le voci che mi ordinano di liberare la Francia!”
Anch’io sentivo “le voci dei miei personaggi che volevano uscire fuori e vivere la loro vita”. La fatica non mi pesava e non mi accorgevo del tempo che passava.
Volete sapere se è stato un piacere aver scritto il Dono di Ahmet Pascià?
Sì, ne sono convinto, ma sono ancor più convinto che per me sia stato un dovere averlo scritto. Un dovere verso la mia città che ha bisogno di essere valorizzata per quello che merita e un dovere verso i miei concittadini: molti, letto il romanzo, mi hanno ringraziato per averli resi protagonisti, come in un film di cappa e spada, di una bella storia ambientata in Ortigia.

Dopo aver vissuto l’esperienza travolgente di Ahmet Pascià, mi rivolgo ai giovani presenti in sala:
seguite il mio esempio.

Non mortificate la vostra fantasia e il vostro estro.

Scrivete, suonate, scolpite, dipingete, componete.

Ricordate che sino a diciott’anni tutti siamo poeti: poi le difficoltà della vita, purtroppo, uccidono la poesia e la creatività nei più.

Cari amici, cercate di mantenere intatta per sempre la creatività giovanile nel vostro cuore!

Alcune foto delle presentazioni
L'autore tra la moglie e l'editore Morrone
Il presidente G. Pignata e il giornalista Dino Cartia premiano l'autore
Il sindeco di Noto Michele Accardo, l'autore, il prof. Luigi Amato, e l'editrice Fausta Di Falco alla presentazione del Dono di Ahmet Pascià a Noto il 23-5-2003
Il sindaco Michele Accardo e l'autore
l'autore firma autografi a Noto